Durante la scorsa edizione di Lucca Comics & Games, abbiamo avuto il piacere di intervistare Giuseppe Camuncoli, ospite dello stand saldaPress per promuovere Green Valley, volume contenente l’omonima miniserie sceneggiata da Max Landis e pubblicata originariamente da Image Comics nella linea editoriale Skybound.

Durante la nostra chiacchierata abbiamo toccato diversi argomenti: il rapporto tra mercato italiano e statunitense, quello tra titoli creator owned e delle major, ma anche l’insegnamento e l’importanza dell’organizzazione all’interno della propria tabella di marcia.

Ringraziamo Jacopo Masini e il resto dello staff saldaPress per la collaborazione.

 

Ciao, Giuseppe! Bentornato su BadComics.it.
Sei tra i disegnatori italiani più impegnati nel mercato americano e in quello italiano. Nel corso dell’incontro tra C.B. Cebulski e Hiroyuki Nakano, Roberto Recchioni ti ha menzionato per la tua affidabilità. Come sei approdato al mercato statunitense e quali sono le principali differenze lavorative con il settore italiano?

Green Valley, copertina di Giuseppe Camuncoli

Innanzitutto, sono arrivato a lavorare per il mercato italiano, e più in generale con quello europeo, solo in seconda battuta, a parte l’autoproduzione “Bonerest”, realizzata con Matteo Casali nel 1997. Il mio vero e proprio esordio professionale – ovvero il primo lavoro pagato – fu già di altissimo livello per il mercato americano, con la Vertigo: “Swamp Thing”, del 2000. Non a caso, sia io che Matteo siamo grandi fan del mercato americano. Leggo e ho sempre letto di tutto, tra super eroi da più piccolino e Vertigo quando sono entrato in una fase un po’ più adulta, e la mia passione viscerale è sempre andata prevalentemente in quella direzione lì.

Ho seguito l’esempio di Claudio Castellini, il vero apripista che non smetterò mai di ringraziare, perché se non fosse stato per lui noi italiani non avremmo mai avuto il coraggio di andare in America a far vedere le nostre cose. Lui ha mostrato a tutti che era possibile arrivare a quei livelli negli anni Novanta, quando Internet muoveva i primi passi e soprattutto non c’era uno storico di autori nostrani al lavoro per il mercato americano.

Per me è stata una soddisfazione e un premio inaspettato, seppur naturale. Come ho avuto modo di dire altre volte a C.B. Cebulski e ad altri editor americani con cui ho lavorato, la nostra generazione è quella che è cresciuta con i fumetti americani, li ha digeriti, metabolizzati e ritirati fuori con una propria salsa. In qualche modo, è stato naturale avere questo sbocco, e tuttora è il mio mercato di riferimento, visto che la maggior parte dei lavori continuo a farla per Marvel e DC Comics, fonti di grandissime soddisfazioni.

Ora è diventata la norma, ma per tanti anni non è stato così. Sono arrivato in Europa, e in Italia in seconda battuta, perché qui mi sono fatto conoscere grazie al mio lavoro americano. Mi sono arrivate diverse proposte dal nostro Paese, campo che ho accolto più che volentieri: “Dylan Dog” e “Tex”, la mia passione fin da quando ero un bambino, qualcosa che non avrei mai immaginato.

Non ci sono grandissime differenze nell’approccio al lavoro, oltre alla lingua e al fuso orario. Il metodo è molto simile. Un tempo, poteva aver senso avere una certa vicinanza con la casa editrice perché non esisteva Internet e nemmeno gli scanner, quindi bisognava andare lì a portare le tavole o spedirle. Ora, invece, si lavora da qualsiasi parte del mondo senza problemi. Trovo che, almeno a livello personale, sia una grande ricchezza poter lavorare per tutti questi mercati, perché dà la possibilità di mettere lo zampino in più ambiti.

Green Valley, anteprima 02

Sono ormai diversi anni che lavori in quest’ambiente, e dal 2000 a oggi il mercato dell’intrattenimento si è evoluto molto. Per te che hai vissuto questo ventennio dall’interno, com’è cambiato il modo di lavorare?

In realtà, il mio modo di lavorare è cambiato pochissimo. Le sceneggiature arrivano sempre allo stesso modo e io continuo a lavorare su carta, non ho nemmeno fatto il passaggio al digitale come molti altri colleghi. Se lavoro con un inchiostratore inglese o americano, le tavole le spedisco con un corriere, come agli inizi. Sono cambiati dei piccoli dettagli: prima il lettering veniva fatto a mano, stampato e incollato sulle tavole originali, ora invece quelle pagine restano bianche.

Quello che è cambiato è il contesto: per esempio poter lavorare con la Marvel su videogiochi, Cinema e Televisione, o comunque in tutta quell’industria dell’intrattenimento già fortissima prima del boom dei cinecomic. Ora, anche in Italia la situazione sta iniziando a cambiare, e di questo sono particolarmente contento. Ho sempre pensato che questo fosse un aspetto mancante del nostro mercato, e ormai è divenuto imprescindibile.

Durante una conferenza stampa, Robert Kirkman ha parlato dei parallelismi tra l’iterazione a fumetti e quella televisiva di “The Walking Dead”. Image Comics ha fatto del creator owned il suo stendardo: come procede questo discorso con “Green Valley”?

Dylan Dog 387: Che regni il caos!, copertina variant di Giuseppe Camuncoli

Non ci sono news particolari riguardo a un’eventuale trasposizione di “Green Valley” in altri media. Penso che tutti i prodotti Skybound nascano comunque con quell’obiettivo in mente, che sia un film, un cartone animato o una serie televisiva. Credo che la forza di Kirkman sia proprio la sua visione, avere questo sogno in cui ha creduto molto e la capacità di arrivare a un certo livello per poi fare il passo successivo. Lo dice lui stesso: è una cosa che fa bene all’industria e ai professionisti, perché vengono trattati in maniera assolutamente egregia fin dall’inizio.

Questo ambiente creativo, per me, è stato particolarmente fertile fin da principio, quando abbiamo deciso le tempistiche per lasciarmi il tempo di poter disegnare “Amazing Spider-Man”, su cui ero al lavoro al tempo. Abbiamo elaborato il tutto nell’arco di due anni e quando ho avuto più o meno metà degli albi fatti, abbiamo iniziato ad annunciare il progetto. Ormai avevamo preso il ritmo e sapevamo che saremmo arrivati a chiusura senza il rischio di tardare.

In realtà, questa è una cosa che difficilmente permetto che avvenga, visto che è uno degli aspetti a cui tengo di più. Quando ho iniziato a lavorare mi venne subito detto di non scazzare le consegne, e quello è diventato il mantra che cerco di trasmettere a tutti quanti. È difficile, comporta un sacco di rinunce, tempo libero e sacrifici, ma tutto sommato c’è ben di peggio. È quello che ti rende affidabile e dipende interamente da te.

Molto spesso, quando si parla di produzioni americane, un disegnatore impegnato su una serie regolare si limita a lavorare per quella, mentre tu talvolta hai portato avanti diversi lavori contemporaneamente.

Son discorsi che capitano spesso tra colleghi. È una questione anche di golosità: nonostante siano tanti anni che lavoro, e molte soddisfazioni me le sia già tolte, spero di continuare a farlo finché campo. Questo è un mestiere molto vario che può dare tante gratificazioni, per questo dire di no – anche se talvolta ho dovuto farlo per questioni di sopravvivenza – diventa molto difficile, soprattutto quando ti propongono cose a cui tieni molto.

Mentre lavoravo ad “Amazing Spider-Man”, per esempio, per un certo periodo ho continuato a disegnare “Hellblazer”, perché è un altro dei miei personaggi preferiti, di cui facevo solo i layout. Un po’ con l’esperienza e un po’ con l’organizzazione del lavoro, sono riuscito a portare avanti questo metodo. Ora, dopo venticinque numeri di “Darth Vader” realizzati consecutivamente in venti mesi – quindi più di un numero al mese in media, nonostante facessi solo i layout – il mio obiettivo è prendermi due o tre mesi di pausa per riprendere fiato. Poi, nel 2019 vorrei dedicarmi a una miniserie, qualcosa con un ritmo più tranquillo, perché ogni tanto ho bisogno di cambiare e fare qualcosa di diverso.

 

 

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