A Cartoomics 2018 abbiamo incontrato un ventiquattrenne che ci ha colpiti parecchio. Si fa chiamare Capitan Artiglio ed è un giovane fumettista che, secondo noi, ha un talento davvero notevole e affronta con coraggio e spregiudicatezza le storie di genere, raggiungendo al debutto risultati che ci lasciano con l’acquolina in bocca.

Alla fiera milanese, grazie alla consueta gentilezza dello staff BAO Publishing, abbiamo potuto scambiare quattro chiacchiere con il Capitano riguardo al suo Kids With Guns – che ha fatto sold out – ed ecco a voi cosa ne è scaturito.

 

La prima cosa che voglio chiederti è quale sia la tua formazione fumettistica.

Ho cominciato copiando i disegni di “Dragon Ball”, quindi partendo da Akira Toriyama ho iniziato ad appassionarmi al Fumetto. Poi sono passato a Masashi Tanaka, il disegnatore di “Gon”, e mi sono formato copiando autori dei generi più disparati. Moebius, Pazienza, ma anche altri, americani tipo Brandon Graham…

In diversi anni che faccio interviste, credo di non aver mai chiesto questa cosa. Volevo saperlo da te, perché leggendo “Kids with Guns” ho avuto l’impressione che tu avessi una formazione autonoma. Non rispondi davvero a nessuna scuola e lo dico in senso positivo. C’è un’immediatezza nelle tue matite che è rimasta intatta, priva di una formalizzazione che credo ti toglierebbe autenticità.

Be’, ti ringrazio. Come dici tu non ho mai sentito il bisogno di appartenere ad una scuola precisa, il mio stile è più una sorta di crossover.

Dici che hai imparato copiando a disegnare. E a scrivere, come hai imparato?

Mah, non saprei. Cerco di rubare un po’ il mestiere a tutto quello che leggo.

Kids With Guns di Capitan Artiglio

Hai iniziato con l’intenzione di raccontare a fumetti?

Sì, da sempre ho la necessità di narrare, e disegno da quando sono nato. Le due cose sono andate di pari passo sin dall’inizio e, in effetti, non ho mai fatto corsi di scrittura. Ho studiato il linguaggio del Fumetto all’accademia d’arte, con il professor Pierpaolo Rovero. Lì ho imparato a sfruttare il mezzo, ma sulla scrittura sono un completo autodidatta.

Le tue primissime prove di scrittura e narrazione?

Ho scritto un fumetto di cento pagine che avranno letto in cinque quando avevo su per giù vent’anni, e quello fu un esercizio per provare a realizzare più di una pagina di fumetto, a dare struttura. Da lì ho continuato. Mi è sempre piaciuto anche scrivere le storie, come da piccolino, quando riempivo interi quaderni di storie assurde, fantasy o altro.

E, a proposito di fantasy, ci sono un sacco di generi in questa tua storia d’esordio, anche il fantasy, ma mi pare si possa dire che quello principale sia il western. “Kids with Guns” credo si possa definire un western con dentro tante altre cose. Come mai proprio la prateria come riferimento principale?

Per una serie di ragioni, ma in primis mi piaceva l’idea di raccontare un certo tipo di personaggio e di personalità che trovi più nei cowboy che in un altro tipo di personaggio di genere, tipo un samurai. Il cowboy è un po’ strafottente e un po’ spaccone, volevo raccontare quel tipo umano lì.

Kids With Guns di Capitan Artiglio

Quindi l’ispirazione di genere è costruita attorno al personaggio, un’opera che parte dai protagonisti.

Sì, credo si possa dire. Dalla costruzione dei personaggi. Poi, comunque, c’è una passione di fondo per il Cinema di Sergio Leone e di Peckinpah, ma la scelta è proprio partita dai personaggi.

Dovessi scommettere, allora, dei tuoi personaggi, la causa della tua scelta è Veleno, che tra i tuoi protagonisti è il più spaccone. No?

In realtà, no, però è uno di quelli che preferisco. Diciamo che la necessità era di avere qualcuno simile a lui nella storia.

Allora è proprio la giovanissima protagonista il tuo perno e l’origine di tutto?

Sì. Nel tempo la vedremo evolversi, però è già presente in questo primo volume il fatto che stia diventando una sorta di rockstar. La vediamo atteggiarsi parecchio, a un certo punto. E la cosa si adatta perfettamente al personaggio del cowboy.

La storia di una rockstar, quindi?

Sostanzialmente. Diciamo che c’è anche quello. Infatti nel volume è presente il discorso della medializzazione: descrivo il modo in cui i media reagiscono a quello che viene raccontato. E poi c’è il discorso familiare, dato che i protagonisti sono una specie di famiglia.

Kids With Guns di Capitan Artiglio

E poi ti sei divertito a inserire il tema della musica, che hai integrato all’interno del media fumettistico. Questa cosa della musica nei fumetti è sempre più presente, ma tu hai fatto un po’ una cosa alla Edgar Wright, usando un tempo di batteria per creare un addestramento da pistolero. Da dove viene l’idea?

In realtà questa cosa non l’ho tratta da nessuna fonte, mentre un’altra parte di quella scena, il fatto di estrarre la pistola prima che il maestro batta le mani, è presa direttamente da “I Magnifici Sette”.

Sei un musicista?

Sì. Ora meno, ma al liceo suonavo un sacco la chitarra.

Leggendo “Kids with Guns” non ho potuto non pensare a un fumetto degli ultimi anni che personalmente ho amato molto, un altro western con elementi disparati e fantastici: “Sixth Gun”, di Cullen Bunn e Brian Hurtt. Quanto c’è di quella serie?

Be’, figo. Un pochino sì, mi ha fatto da riferimento. In realtà è stato Leonardo Favia, il mio editor BAO, a consigliarmelo, quando avevo già in mente la storia. Ma in fase di realizzazione della storia mi sono lasciato un po’ ispirare anche da lì.

L’atteggiamento verso la mescolanza di generi è abbastanza simile, come alcune trovate. Tra l’altro pensavo che il tuo Veleno assomiglia un pochettino al protagonista di Bunn.

Sì. Direi che tutti e due sono un classico del western, archetipi di genere. Tutti e due finiscono per fare cose buone, ma un po’ se ne vergognano.

Kids With Guns di Capitan Artiglio

Poi, però, tu spingi molto di più nella macedonia di genere. C’è la fantascienza, c’è il fantasy, c’è dentro un po’ di paleolitico. Il tutto con le dinamiche del mondo che sono estremamente contemporanee.

Sì. Per quel discorso dei media a cui facevo riferimento prima, ho voluto rimanere molto vicino ai giorni nostri.

Lo hai fatto perché avevi voglia di dire qualcosa sulla nostra epoca o, semplicemente, è un po’ la tua tazza di tè e ti ci ritrovavi più a tuo agio?

Un po’ l’uno e un po’ l’altro. Diciamo vivendo in questo particolare periodo storico il parallelo con i giorni nostri è sorto spontaneo.

Mi dicevi dei tuoi riferimenti artistici, prima. Moebius l’ho rivisto subito nei tuoi panorami molto ampi e nelle prospettive che cercano la distanza, ma nel tuo tratto c’è anche molto indy italiano. Io ti trovo vicino a Ratigher, per certi versi.

Sì, posso confermare, ma anche un po’ a Zerocalcare, devo dire. E poi c’è qualcosa di Pazienza, tra le righe. Se guardi i capelli dei personaggi, sono tutti fatti come le capigliature di Pazienza.

Mi pare di intuire che, come me, sei un lettore bulimico e ti piace di tutto.

Sì, sono davvero un onnivoro e leggo un po’ di tutto. Ma anche Darrow, Graham, Farinas sono rintracciabili.

Sei giovanissimo, sei al debutto o quasi, e già ti sei buttato su una serie. Complimenti per il coraggio e per la fiducia che hai ottenuto da professionisti come BAO. Immagino che la scelta sia stata tua.

Sì. E grazie. Il fatto è che la costruzione del mondo era così ampia che volevo realizzare più di un libro con quest’ambientazione. Quindi sono già partito a costruire la storia in più volumi e pensando già a dei seguiti. E mi sto divertendo un sacco perché sta nascendo proprio il mondo che volevo fortemente costruire e trovo fantastico che Bao mi abbia dato tutta la fiducia di cui avevo bisogno per un progetto così corposo.

Tra l’altro è un impegno non da poco.

Sì, ma è anche una bella sfida!

Essendo una serie hai lavorato un po’ in anticipo, sai già che direzione prendere? Oppure stai ragionando passo passo, capitolo per capitolo?

Un po’ e un po’. Ho in mente uno schema di quel che voglio fare e raccontare, so dove voglio arrivare, ma mi tengo diverse opzioni per la fine e per vedere dove mi porta la strada, anche perché spesso ti capita di fare modifiche in corso d’opera e spesso vieni influenzato da qualcosa durante la lavorazione e decidi di prendere vie differenti da quelle iniziali.

Da sostanziale autodidatta, ti sei dato un metodo rigido oppure lasci lavorare la fantasia più liberamente?

No, sono molto metodico e rigoroso. Come spiegare? Lavoro ad albero. Mi faccio sempre un elenco di dieci punti. Ognuno di essi viene scomposto e approfondito in altri dieci punti e, in questo modo, riesco a definire la struttura e il senso di quel che voglio raccontare.

Mi pare di capire che ti senti narratore e autore completo, anche se hai alle spalle esperienze solo come sceneggiatore. Lavorare solo come disegnatore, invece, ti interesserebbe?

In realtà, non tanto. Me l’hanno proposto in tanti, anche autori importanti. Ma è un po’ frustrante per me, e parlo solo per me. Ho sempre la necessità più di raccontare che di disegnare. Le matite sono semplicemente il mio mezzo per arrivare alla storia.

E se qualcuno dovesse disegnare le tue storie, chi ti piacerebbe avere a disposizione? 

Per me, tra gli italiani, Matteo Scalera è un dio. Poi De Felici. Ma questi sono sogni pazzeschi.

E quali altri generi pensi di poter frequentare, oltre a quelli contenuti in “Kids with Guns”?

Penso che potrei buttarmi su qualsiasi cosa, se ho in mente la storia giusta. Forse non l’erotismo, che non mi sento in grado di affrontare con la giusta sensibilità, senza essere troppo superficiale o volgare. Ma l’horror, ad esempio, mi piacerebbe molto. O anche la fantascienza pura, il fantasy. Sperimenterei di tutto.

Il seguito di “Kids With Guns” è già in lavorazione?

Sì, stiamo iniziando adesso. Finisco questa maratona di fiere e poi sono in immersione, spero di finirlo entro un annetto.

 

Kids With Guns, copertina di Capitan Artiglio