Siamo certi che sappiate chi era l’ospite più importante di Lucca Comics & Games 2019, ma ve lo diciamo comunque: Chris Claremont.

Se avesse bisogno di presentazioni, vi diremmo che è stato sceneggiatore degli X-Men per oltre sedici anni, che ha scritto l’albo a fumetti americano più venduto di ogni tempo, che ha firmato capolavori assieme ad alcuni dei disegnatori più talentuosi di sempre e che la mitologia dei mutanti Marvel gli sarà sempre debitrice.

 

 

Abbiamo avuto il privilegio di godere di ben trentacinque minuti del tempo di X-Chris: il risultato è l’intervista che state per leggere, in cui non sempre ha risposto alle nostre domande, le quali a volte hanno avuto più la funzione di stimolo per un percorso tutto suo. Nelle parole di questo sessantanovenne felicissimo, con ancora tanti sogni e tanti desideri, c’è però più di quanto potessimo chiedere. Claremont ci ha parlato della sua idea di scrittura, del suo rapporto con John Byrne e di alcuni rimpianti piuttosto importanti.

Siamo grati allo staff Panini Comics per la gentilezza e in particolare al Coordinatore Editoriale, Nicola Peruzzi, che è rimasto con noi a pendere dalle labbra dello scrittore britannico durante l’intervista.

 

Grazie mille, signor Claremont. Per me è un onore poter condurre questa intervista. E siccome ho una sola occasione per farle un po’ di domande, cercherò di stimolare la conversazione su alcuni aspetti interessanti della sua carriera. Siccome potrei scendere un po’ nel personale, qualora dovessi fare domande a cui non vuole rispondere, si senta libero di non farlo.

Claremont – Interessante. Se succederà lo farò.

Perfetto. Lei ha lavorato con svariate personalità molto forti, e alcuni di questi disegnatori erano anche autori o lo sono diventati. Qual è stata la chiave per non entrare in conflitto con le loro idee – che immagino fossero altrettanto forti – sul materiale e sul metodo narrativo? Come si fa a lavorare sereni con John Byrne o Barry Windsor-Smith, se si è Chris Claremont?

X-Men di Chris Claremont 1, copertina di Dave Cockrum

Claremont – Credo che la chiave, quando si hanno personalità così forti, è avere chiaro in mente il fatto che tutti siamo professionisti, che c’è qualcosa che va al di là del nostro lavoro di sceneggiatore e disegnatore. Bisogna trovare un modo per gettare un ponte che permetta di attraversare le nostre differenze, che ci sono state ed erano importanti.

Detto ciò, sono grato del fatto che ci fosse sempre una persona nel mezzo, una persona in grado di comportarsi da paciere ed essere la voce del buon senso, ovvero l’editor. Mentre lavoravo con John Byrne, Barry Windsor-Smith, Alan Davis, Marc Silvestri, Jim Lee e John Romita Jr., avevo la straordinaria fortuna di avere Louise Simonson e Ann Nocenti come editor. Quindi si trovava un equilibrio.

Non si trattava di una nuova sfida, ma la stessa che hanno dovuto affrontare Stan Lee e Jack Kirby e che li ha portati fino al punto in cui il secondo ha sentito di dover abbandonare la collaborazione.

C’è una differenza: noi siamo consapevoli dei litigi e delle difficoltà tra Kirby e Lee, mentre dei suoi…

Claremont – Non all’epoca. Non quando accadevano. Trent’anni dopo? Certamente le conoscevamo. Forse, a vent’anni da oggi leggerete delle discordie che ho avuto con i miei colleghi.

Tra vent’anni, dunque. Non oggi.

Claremont – No.

Ok, capito. In questi giorni ha rilasciato alcune dichiarazioni che fanno pensare che, se lei potesse decidere, Chris Claremont sarebbe ancora lo scrittore degli X-Men. Può confermare?

X-Marvel 1, copertina di John Byrne

Claremont – Ecco… vedi… io credo che nella vita si arrivi sempre a un bivio, a un certo punto. Destra o sinistra. Quando John Byrne è andato da Jim Shooter a dire che voleva gli X-Men per sé, si è sentito dire che non era possibile, perché erano miei. Eppure mi sono spesso chiesto cosa sarebbe successo se Shooter avesse detto: “Ok. John, gli X-Men sono tuoi. Chris, tu ti prendi i Fantastici Quattro”. Cosa avrebbe fatto John? Avrebbe scritto e disegnato da solo. La domanda che mi pongo è: sarebbe durato sedici anni? Avrebbe creato la stessa quantità di personaggi che ho creato io? E io avrei fatto altrettanto per i Fantastici Quattro? Ma soprattutto mi chiedo quale effetto avrebbe avuto tutto questo sul pubblico. Non è male come What if.

E un altro interessante è questo: supponiamo che io sia rimasto alla Marvel nel 1991, che io e Bob Harras avessimo trovato il modo di convivere. La mia ambizione, allora, era di arrivare al numero #12 di “X-Men”, diciamo, e trovare un modo per continuare a vendere oltre un milione di copie a numero. Forse non avrebbe funzionato, ma poniamo che l’avrebbe fatto: che effetto avrebbe avuto sulla crisi che sarebbe arrivata quattro o cinque anni dopo? Avrebbe fatto la differenza? Avrebbe reso il fallimento della Marvel meno grave? O forse lo avrebbe evitato del tutto? Perché il mio obiettivo era quello di accrescere il numero dei nuovi lettori, non quello di far aumentare le vendite, perché ogni persona avrebbe comprato… cinquanta copie a testa.

Non lo sapremo mai. Il problema è che quella non è la direzione che abbiamo preso, quindi dobbiamo fare i conti con la realtà che abbiamo di fronte. Quando vai a votare, devi scegliere tra i candidati che ci sono, non passare il tempo a desiderare che Bob Kennedy sia ancora vivo.

Ecco. Non semplice per me. Io sono uno che continua a desiderare.

Claremont – E se ci fosse stato Robert De Niro al posto di Berlusconi? Sarebbe stato meglio? Sarebbe andata diversamente? Magari si sarebbe limitato ad andare in giro a prendere tutti a pugni.

Diverso. Sicuramente sarebbe stato diverso. 

Claremont – Sicuramente più interessante. Ma non lo sapremo mai. Dobbiamo stare nella realtà e seguire il nostro istinto.

X-Men #1, copertina di Jim Lee

Quando scriveva gli X-Men non ha mai pensato: “Ecco, qui potrei davvero costruire il finale della mia storia”?

Claremont – Non ancora.

Non ancora, tutt’oggi. E non ci ha mai pensato?

Claremont – Ci ho pensato un sacco di volte, ma il momento non è mai arrivato.

Credo che questo dica molto di lei. Agli incontri di questi giorni, la prima caratteristica che mi è balzata agli occhi è stato il suo entusiasmo. 

Claremont – Perché privarsene? Perché comportarsi in un’altra maniera? Se scrivere non ti diverte, perché farlo? Nessuno mi costringe. Non è come andare a studiare Legge e accettare lavori come avvocato della difesa o assistente del procuratore nella speranza di diventare, un giorno, giudice. O un giudice migliore. Di arrivare alla corte suprema. No: qui cerchiamo semplicemente di essere i migliori che ci siano. E per quanto riguarda lo scrivere fumetti, quantomeno alla Marvel Comics. io sento di essere tra i migliori. E il mio impegno è quello di dare il meglio che posso, con la convinzione, generalmente, di essere migliore di tutti gli altri.

A tutt’oggi?

Claremont – Certamente. Quando Frank Miller scriveva Daredevil e io gli X-Men, certi mesi lui era primo nelle vendite e io secondo. E magari il mese dopo ci scambiavamo, ma il punto era che, quando lui scriveva qualcosa di brillante, la cosa che pensavo ogni volta era sempre che avrei dovuto pensarci prima io. Perché non l’ho fatto?

Io sono un grande fan di NBA, e questo atteggiamento, questa volontà di dimostrare di essere il migliore, è quella che ci fa appassionare ai singoli atleti, secondo me. 

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Claremont – Un’altra cosa importante per me sta nel fatto che se fossi stato lo sceneggiatore dei Fantastici Quattro avrei avuto un atteggiamento completamente diverso nei confronti del mio lavoro. Perché avrei avuto per le mani dei personaggi le cui fondamenta sono state poste nel 1961, quindi con un sacco di storia alle spalle. Lo stesso si può dire di Spider-Man e degli Avengers. Tutti i concetti fondamentali erano già stati decisi. Io potevo giocarci, ma senza inventare niente di nuovo. Quindi ho l’impressione che se mi avessero consegnato i Fantastici Quattro non avrei avuto l’occasione di raccontare qualcosa di davvero significativo e duraturo, con quel cast. Certo, avrei potuto ideare Valeria, mi sarei divertito, avrei potuto sostituire Reed e Destino e lasciare che il primo scoprisse di divertirsi molto nei panni del proprio nemico, ovviamente molto infastidito. Il che avrebbe portato gli FQ a lottare con lui per fermare Reed. Ma alla fine di quelle storie, avrei dovuto rimettere tutti i giocattoli dove li avevo trovati.

Con gli X-Men, per sedici anni e mezzo, ho avuto per le mani personaggi miei, storie mie, la mia evoluzione, che ho tenuto in pugno fin dall’inizio, con l’eccezione di Ciclope. Se avessi continuato a scriverli, avrei mantenuto la stessa idea per altri vent’anni. Per me sarebbe stato uno spettacolo, ma dalla prospettiva della Marvel e della corporation che ha alle spalle non era una cosa altrettanto vantaggiosa. Per prima cosa i personaggi sarebbero stati identificati ancor più con me, visti come i miei X-Men, non della Marvel. Ma soprattutto, quando qualcuno come Joss Whedon è arrivato e ha chiesto di scrivere gli X-Men e Kitty Pryde, la compagnia avrebbe dovuto negarglieli per forza. Invece, essendoci stati così tanti cambiamenti tra la fine della mia run e l’inizio della sua, ecco che poterono. E per la Marvel fu fantastico, perché poté utilizzare questa stessa libertà per attrarre Grant Morrison, Mark Millar e personalità del genere. Dal mio punto di vista, però, questo ha trascinato i personaggi lontano da quella che per me era la loro verità.

X-Men di John Byrne

E se dovesse riaverli tra le mani, lei avrebbe un piano per ricondurli a quella verità?

Claremont – Ma certo. Se le cose andassero come vorrei… sai cosa? Se fossi stato abbastanza pazzo, li avrei comprati dalla Marvel quattordici anni fa, quando erano in vendita per poco. E sono stato un fesso, perché nel 1987 o giù di lì, quando la Marvel era in vendita e Jim Shooter cercava di comprarla, era una compagnia da duecento milioni di dollari con più di ottanta milioni di debiti. E quel che mi fa arrabbiare è che io, Walt Simonson, Frank Miller e John Byrne avremmo potuto comprarla così, come ridere.

Lei vuole proprio vedermi piangere.

Claremont – Non sapremo mai se avremmo avuto successo, ma certamente ci saremmo divertiti molto.

Ne sono certo.

Claremont – Sicuramente è successo in un’altra dimensione. Consoliamoci.

Cambiando argomento: oggigiorno leggiamo di moltissimi sceneggiatori che dichiarano di scrivere pensando ai propri disegnatori e di raccontare storie per mettere in luce i loro punti di forza, di lasciargli molto spazio e consegnargli trame che li stimolino. Ho sempre avuto l’impressione che anche lei si adattasse molto ai vari disegnatori con cui ha lavorato, nel corso degli anni.

New Mutants: War Children #1, copertina di Bill Sienkiewicz

Claremont – Ma certo. Quando lavori con Dave Cockrum, John Byrne, Jim Lee, John Romita, Marc Silvestri o Alan Davis, ognuno di loro è brillante e ha un talento unico. Ma presentano anche allo sceneggiatore delle sfide altrettanto uniche e il suo compito è quello di fornire loro delle trame che li spingano a dare il meglio. Quindi, certo che si adattano le storie all’artista che si ha a fianco, alle sue caratteristiche. Puoi farlo seguendo le sue preferenze o sfidandolo a fare qualcosa di imprevisto, ma il punto è che io sono fedele al mantra di Stan Lee, secondo cui ogni numero è il primo per qualcuno, e quindi deve stare in piedi da solo. Questo significa che io devo avere la libertà, se sbaglio una sceneggiatura, di ricominciare con qualcosa di nuovo nel numero successivo.

Ecco, pensa quanto questo è diventato più difficile quando le storyline sono diventate ampie e spalmate su quattro testate diverse. Quattro mesi minimo di sopravvivenza dell’errore che hai compiuto. A questo proposito ho delle cose da dire anche sulla maniera di lavorare che hanno oggi: sceneggiature sempre complete, pronte da consegnare agli artisti in ogni angolo del mondo, pronte per essere disegnate. Trovo che sia incredibile il fatto che tanti editor e tanti scrittori non abbiano nemmeno la più pallida idea di chi sia la persona che disegnerà quelle storie. Preferiscono sceneggiature che consegnino tutto in un pacchetto. Per loro è più facile, ma per me sarebbe stato molto meno un vantaggio in termini di qualità del lavoro, di quel che arriva in mano ai lettori.

Marvel Omnibus - X-Men #2, copertina di John Byrne

Jack Kirby ha mollato la Marvel perché consegnava a Stan Lee una tale quantità di immagini, di idee, di suggerimenti creativi per ogni pagina che quel patrimonio diventava impossibile da gestire. “New Gods” è crollato per questo motivo. Stan Lee faceva da editore, concentrandosi sugli elementi che sapeva importanti per quella storia e lasciava che altri tornassero utili in altre occasioni. E Jack era furioso per questo. John Byrne aveva un problema simile con me. Io consegnavo una sceneggiatura di massima a lui, che disegnava la storia, ma spesso, nel frattempo, mi veniva quella che io consideravo un’idea migliore. Ne discutevo con l’editor e decidevamo, a volte, di cambiare i piani. E per lui era un problema enorme. “Ho lavorato per giorni su quel che avevamo concordato e ora tu lo cambi?”. L’unica risposta che avevo da dargli era che avevo avuto un’idea migliore. “Ma non per me!”, mi diceva. È così che funziona, però. Ci si riesce a coordinare oppure no. Ed è per questo che le cose tra me e lui hanno smesso di funzionare, a un certo punto: Stan e Jack sono riusciti a convivere per un po’ e poi hanno dovuto dividersi. Lo stesso vale per me e John Byrne.

Il punto è che, per me, ogni sceneggiatura, per quanto completa, non è che una prima stesura. Quando io e Bill Sienkiewicz abbiamo realizzato le nostre storie sui Nuovi Mutanti, è venuto fuori qualcosa di speciale. Di base, costruivamo la storia insieme, decidevamo cosa ci piaceva e io scrivevo la sceneggiatura; ne parlavo con l’editor, che l’approvava, e poi la davo a Bill. Ma gli dicevo anche che, a parte le prime tre pagine che servivano a stabilire degli elementi fondamentali della trama, per il resto doveva divertirsi con quel materiale e sentirsi libero. Perché quel che volevo da lui era la sua visione migliore. Certo che io ho delle cose in mente, quando scrivo, ma è lui che disegna, che mette sulla pagina gli eventi. Se ha un’idea migliore della mia, che la segua. Se cambia la storia, voglio certamente che ne discuta con me, ma che la proponga. Oggi, invece, tutti scrivono sceneggiature complete di dialoghi, dettagliatissime. E il fatto è che questa è una rinuncia.

Avengers Annual #10, copertina di Al Milgrom

Non so se ricordi il decimo “Avengers Annual”, che ho realizzato con Michael Golden. In una sequenza c’è la Donna Ragno in una corsia d’ospedale. Un poliziotto le consegna dei rapporti, e lì finisce la scena. Ma nella vignetta centrale Michael ha deciso di disegnare quattro persone che parlano tra loro: un dottore, un’infermiera, una suora e una ragazza. Stanno chiaramente avendo una discussione, e a me è venuta voglia di sapere, da scrittore, di cosa stessero parlando. E ho scritto un dialogo per loro. E sono quasi trent’anni che giornalisti come te e fan mi fanno domande su quella vignetta. Poco dopo, ci sono alcune vignette che vedono la Donna Ragno sempre in ospedale. Beve caffè e legge rapporti. Io non avevo dato indicazioni a Michael sul personaggio, ma lui l’ha disegnata con i piedi adesi al muro, a un metro e mezzo di altezza, seduta sulle sue caviglie. Piccole cose, che però definiscono senza dire una parola un personaggio. Perché quella è la Donna Ragno ed è così che beve il suo caffè. Dettagli, che però per me sono fondamentali e che in qualche modo definiscono la forza del linguaggio del Fumetto.

Non è che il Cinema non ne sia in grado, ma per fare altrettanto devi spendere un sacco di soldi, tempo e idee. Pensa al disastro che sarebbe stato per la produzione capire come rendere credibile quella posizione per la Donna Ragno, appesa al muro, ma seduta a bere il suo caffè! Quando vedi Tom Cruise che si arrampica sulle vetrate di un grattacielo di Dubai, in “Mission: Impossible”, tu vedi solo lui, un paio di guanti e il panorama, ma dietro ci sono un’imbracatura, cavi, probabilmente un paracadute, attrezzisti, attrezzature da centinaia di migliaia di dollari e il lavoro dei tecnici della CGI. Noi, a fumetti, possiamo realizzare quella stessa scena senza mezzi tecnici, senza mettere in pericolo nessuno e senza budget. E questa per me è una vera magia. L’unico limite che abbiamo è la nostra immaginazione e la nostra capacità di disegnare una scena.

Dopo tutto ciò, ho una domanda rapidissima: se lei fosse rimasto al comando degli X-Men, avremmo visto i Nuovi Mutanti diventare la squadra principale?

Claremont – Forse nel 2050. O nel 2100. [sorride sardonico]

Ultima domanda, forse: lei non ha figli, se non sbaglio.

Claremont – Oh, questioni private. Perché me lo chiedi?

Perché non le ho mai sentito parlare di figli o figlie, non ho mai avuto notizie in questo senso, ma una delle cose più interessanti che lei ha prodotto credo sia il rapporto tra Wolverine e Kitty, e mi sono sempre chiesto da dove venisse.

Kitty Pryde and Wolverine #5, copertina di Al Milgrom

Claremont – Ti racconterò la mia visione di quel rapporto. Ci sono tre livelli della storia. E devo segnalarti che c’è anche Jubilee nel quadro. C’è una storia breve, che ho realizzato assieme a Salvador Larroca, che si colloca all’interno della miniserie che vide protagonisti Kitty e Wolverine. Stanno guidando in Giappone per una missione. Non una enorme. Importante, ma non fondamentale. Kitty si lamenta perché Wolverine la costringe a parlare giapponese. Chiede perché la costringa a esercitarsi tanto, e lui risponde che non vuole che lei dimentichi quel che ha imparato. Kitty dice: “E se invece volessi dimenticare? Se invece non volessi diventare una ninja?” Lui risponde: “Allora lascia gli X-Men, perché questo non è il tuo posto.” Lui vede le cose come Wolverine e sta dicendo a Kitty: “Hai tredici anni, ora. Hai l’abilità per diventare una ninja assassina demoniaca, sei una superba combattente e hai la possibilità di uccidere un nemico in un batter d’occhio. Questo, per gli X-Men, è una risorsa enorme, perché nessuno ti prenderà sul serio come avversario, vedranno una bambina. O prendi questo dono e lo utilizzi, oppure meglio se te ne vai da qui, perché c’è il rischio che qualcuno si faccia male per colpa tua.” Wolverine sarà anche un eroe, ma non è un uomo gentile, bensì – nella mia visione del personaggio – il figlio di Sabretooth. L’unica ragione per cui lotta per il bene è l’educazione che ha ricevuto dalla madre. Wolverine detesta quel che è, ma lo usa per il gruppo e per un bene superiore. Quando lo vediamo crocifisso–

E tutti ce lo ricordiamo. [Nicola Peruzzi, accanto a me, si lascia sfuggire un “Mamma mia!”]

Uncanny X-Men #251, copertina di Marc Silvestri

Claremont – …Si strappa le braccia fuori dai ceppi a cui è inchiodato. E tutto sotto gli occhi di Jubilee, quattordicenne. Lei è paralizzata dalla paura. Si dice che dovrebbe aiutarlo, ma che non può. Si chiede cosa potrebbe mai fare. Improvvisamente lui è libero, e lei sa che vuole scappare. Prima che possa farlo, Wolverine le dice: “Allora? Mi dai una mano o cosa?” Certo che è una ragazzina, certo che è una spettatrice innocente, e lui sa che legarla a sé emotivamente, trascinarla in una vita da super eroina con gli X-Men, è un’azione terribile nei suoi confronti. Ma Wolverine sa anche che tutto questo è necessario, per preparare gli X-Men alle future minacce. Ha sempre in mente il quadro generale delle cose ed è pronto a decidere chi sia sacrificabile e chi no, cosa sia negoziabile e cosa no. E lo ha fatto con entrambe le ragazze. Se fossero state dei maschi, sarebbe stato identico. L’ha fatto con Kitty e Jubilee perché il mondo vede le ragazze come più vulnerabili, ma lui sa che le mutanti vulnerabili possono crescere e diventare Fenice Nera.

Quando Rachel Summers viaggia nel tempo e torna indietro negli anni Sessanta, sapendo che persona è Logan, non saremo sorpresi di vederli in Vietnam, al fianco del padre di Kitty e di Charles Xavier, giusto? Per me, sono tutti pezzi del puzzle. La regola, per me, è sempre la stessa. Se vuoi costruire un personaggio, devi fare in modo che la sua personalità valga la pena per i lettori, che valga il viaggio che dovranno affrontare. E, per me, questo significa stare lontano dai luoghi comuni, dai cliché bidimensionali. Se voglio affermare che Magneto è un cattivo, che è il malvagio Signore del Magnetismo, va benissimo… ma devo avere nella manica un “ma”. Quel “ma” è fondamentale per l’interesse del pubblico. “Ma” è arrivato da questo passato, ha queste caratteristiche, sogna un mondo migliore. Devo sempre avere una concessiva, un altro punto di vista.

Quindi per lei non esiste il male assoluto?

Claremont – Oh, no. Certo che esiste. C’è… “ma”. Ma al di là della purezza, c’è il personaggio. Illyana è pura malvagità. Lo sa ed è persino contenta di questo. Ma… Ma in cima alla propria mente c’è questa ragazzina russa, una mutante che voleva essere un’eroina. E da qui nasce il contrasto che la rende interessante. Ecco perché fa di tutto per raggiungere Magneto e gli chiede di essere salvata. Anche il più puro degli esseri benevoli o malvagi deve lasciarsi fregare da quel “ma”. In quella piccola parola sta tutta la tensione tragica di cui sono capace. Ovvero, tutte le cose belle che so mettere in un personaggio.

 

Chris Claremont Claudio

 

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