Al Lake Como Comic Art Festival 2019 abbiamo avuto l’occasione di intervistare un disponibilissimo ed entusiasta Kelley Jones. Ci tenevamo particolarmente. Chi scrive è innamorato di Sandman, l’opera di Neil Gaiman, da decenni e considera La stagione delle nebbie il suo capitolo più significativo. Jones fu uno dei disegnatori fondamentali di quella storia, oltre che di una leggendaria epoca di Batman, di Swamp Thing e di molto altro ancora.

 

 

Con lui, abbiamo parlato dei personaggi che ha avuto il piacere di disegnare, del Fumetto americano degli anni Ottanta e di quello di oggi, con un commovente ricordo finale di Len Wein.

 

Penso si possa dire che uno dei tuoi grandi successi sia stato contribuire all’immagine di Batman negli anni Ottanta e Novanta, assieme a Doug Moench. Credi che il personaggio che vediamo oggigiorno sia la naturale prosecuzione del vostro?

Quando arrivammo sulla testata, la stessa domanda fu rivolta a noi. Il modo in cui noi eravamo convinti di trattare Batman, era tornare alle fondamenta della sua identità. E la sua identità è paura. E un vero detective. Il punto era quello di renderlo l’autentico spirito di Gotham City. E invece di concentrarci sulle persone che combatteva, decidemmo di focalizzarci su di lui. Anche perché lui è sempre stato il proprio avversario principale.

Un’altra cosa che facemmo è stato sottolineare il fatto che Batman non sia un super eroe: è senza poteri e deve trovare altri modi per essere efficiente, spesso molto più dei suoi colleghi, perché essendo la paura la sua arma, questa è utilizzabile in ogni occasione. E la sua non è vendetta, è giustizia. A prescindere dal modo in cui viene dispensata, contiene la paura, per evitare che i malvagi facciano del male nuovamente.

E qual era la tua chiave per porre questo significato e questa visione sulla pagina, tramite il disegno?

Ho smesso di pensare a lui nel modo in cui pensiamo ai super eroi di solito, alle sue caratteristiche fisiche e ai suoi dispositivi. Ho iniziato a chiedermi come lo vedrei, cosa vedrei se mi apparisse di fronte, se fossi un criminale, se comparisse nel mio appartamento all’improvviso. Ho pensato che lui, per me, sarebbe solo una forma, una forma che appare sempre nell’oscurità e spaventosa. Non si mostra di giorno, non opera in quel modo, quindi sapevo che avrei dovuto utilizzare letteralmente l’oscurità come parte del suo costume. Per questo ho reso il suo mantello un elemento molto più ampio ed espressionista, con l’intenzione di colpire il lettore con quella forma, come se fosse un suo avversario.

Hai usato una parola che ho sempre trovato particolarmente aderente al tuo stile: espressionista.

Credo sia così. Io ho sempre percepito il disegno in maniera emotiva. E non solo quello. Non sono mai stato razionale, analitico nel mio rapporto con l’Arte, la pittura, la musica o il Fumetto e non mi interessa che un lavoro sia accurato o preciso. Quel che mi interessa è che sia in grado di creare una connessione emotiva, che mi colpisca.

Ho sempre pensato che il tuo modo di comunicare tramite la tua arte fosse scegliere alcuni dettagli di quel che devi disegnare e portarli al punto da essere dei significanti del concetto fondamentale.

Proprio così. E credo che questo permetta al lettore di colmare da sé i vuoti per completare il quadro. Il che è molto meglio. Per me, realizzare un’immagine significa scegliere gli elementi di composizione che sono necessari e lasciare che tutto il resto succeda nella testa del lettore. Il disegno, per me, è come un’immagine vista da lontano. Se guardo gli affreschi della Cappella Sistina, devo guardarli da lontano per osservarli nella maniera corretta, perché sono progettati per distorcere la mia visione, per confonderla, per regalarmi un quadro generale di un certo tipo. Se mi avvicino, non va bene, l’esperienza non è corretta. E lo stesso vale per me per un fumetto. Ti do le cose che servono, che sopravvivono alla stampa, ti fornisco il momento, l’atmosfera e decido dove e come creare la tensione e poi rilasciarla. Il resto devi farlo tu.

Batman è perfetto per farlo. Ci sono artisti che lo disegnano come se fosse Capitan America con un mantello, ma io penso sia una figura molto speciale e che deve avere delle caratteristiche tutte sue. Perché è davvero molto umano. Io non saprei come essere lui, ma so cosa mi spaventerebbe se fosse reale. Ed è su questo che ho sempre lavorato.

Queste caratteristiche del tuo stile e del tuo approccio sono ciò che ho sempre pensato ti rendesse perfetto per “Sandman”. Il tuo nome è legato a “La stagione delle nebbie”, che per me è il capitolo di svolta fondamentale di quella splendida storia, e tu sei stato semplicemente perfetto nel ritrarre le emozioni di un essere sostanzialmente onnipotente. Cosa non semplice.

Batman: Dark Knight III - The Master Race #1, variant cover di Kelley Jones

Ed è la cosa principale di cui io e Neil Gaiman parlammo all’epoca. Lui sapeva che “La stagione delle nebbie” sarebbe stato un momento chiave, decisivo per il prosieguo della storia. Nelle storie singole che avevo realizzato per la serie precedentemente, Morfeo nemmeno appariva, oppure era un personaggio secondario. Avevo realizzato “Un sogno di mille gatti”, episodio che molti artisti avevano rifiutato proprio perché in quella storia Sogno non c’era e il tutto era raccontato tramite gli animali. E per me era stato invece un progetto interessantissimo proprio per la sfida che rappresentava.

Terminata quella storia avrei dovuto lavorare su “Swamp Thing”. Neil non aveva ancora scritto “La stagione”, ma c’era un soggetto abbozzato. E io e lui ne parlammo a lungo. Quel che gli dissi era che per me sarebbe stata fondamentale la componente emotiva della storia e del personaggio, che la vicenda non poteva funzionare, a meno che quell’essere onnipotente non mostrasse in maniera forte le proprie emozioni. La mitologia greca racconta molto bene gli dei come persone terribili, piene di difetti, a volte anche meravigliose, ma comunque persone. E questo è centrale. La storia in sé è molto statica, perché di fatto non c’è molto più che un sacco di persone che parlano tra loro. E il mio progetto era di raccontare le emozioni tramite le immagini, gli oggetti, i dettagli. Ad esempio, i movimenti della tunica di Morfeo. Volevo che apparisse diversa da prima, perché di fatto rifletteva il cambiamento interiore di Sogno. Ad alcuni sarà sembrata sbagliata, ma non lo era. Perché le emozioni sono centrali nell’aspetto di Sogno e, a volte, sono anche in contrasto rispetto a quel che ci succede attorno.

“Sandman” è stato il risultato del lavoro di un sacco di grandi artisti, tutti con il loro stile personale.

Credo che Neil e i suoi collaboratori lo sapessero, non c’era alcuna alternativa. Ecco perché decisero di trasformare la cosa in un vantaggio. Neil era noto per essere sempre un po’ in ritardo con le sceneggiature, motivo per cui per un progetto così enorme cercava di averle sempre pronte in anticipo. E questo permise di pianificare molto e coinvolgere tante persone. Lo sapevamo tutti. Nelle storie c’erano spesso dei cambiamenti inaspettati che ci venivano comunicati e dovevamo correre dietro agli imprevisti.

“La stagione” fu un lavoro molto più organico, e credo che si veda, nelle pagine e nelle tavole. Potemmo lavorare in anticipo e credo che si senta, perché io e i miei colleghi potemmo collaborare molto più del solito e dare coerenza e coesione al ciclo narrativo.

Quando ho letto la saga per la prima volta, l’ho fatto con gli spillati. Poi, in volumi. E già alla prima lettura di “La stagione delle nebbie”, un episodio alla volta, ebbi la sensazione di avere di fronte una sorta di graphic novel, o comunque un arco pensato come tale. Non perché prima non fosse accaduto, ma probabilmente anche grazie a questa componente, alla coerenza notevole dell’atmosfera visiva, pur nella differenza degli stili di disegno.

Molto di questo dipende dal fatto che io sapevo in anticipo dove la storia sarebbe andata, e questo mi permise, come agli altri, di pianificare in anticipo.

Le visioni di Sogno dei singoli artisti, in tutta la saga, sono molto diverse. Quella di Sam Kieth, ad esempio, era molto vaga, Sogno era una macchia di scuro da cui emergevano tratti di umanità. Ma la tua versione era invece molto più umana, visivamente. Qual è la tua idea del personaggio?

Quel che mi interessava era renderlo più grave, perché nella storia gli succedeva di tutto, aveva problemi con la famiglia, doveva affrontare i dolori del passato, doveva accettare la sconfitta. Tutti elementi fortemente umani, mondani. E dissi a Neil che in quella storia i suoi poteri non avevano alcun ruolo, dal punto di vista visivo. Mi ricordo che gli dissi varie volte che ne “La stagione delle nebbie” aveva scritto Sandman come un vecchio re molto stanco, in modo molto shakespeariano. E soprattutto, una persona che doveva fare i conti con le proprie colpe. Ecco perché è così umano.

Neil Gaiman, all’epoca, era già uno scrittore collaborativo?

Per quanto mi riguarda, voglio che gli scrittori facciano il loro lavoro, che scrivano quel che vogliono. A me va sempre bene. Ma mi piace lavorare assieme a loro, parlarci parecchio, comunicare molto, senza dir loro quel che voglio o fare richieste. Credo, all’epoca, di essere stato l’unico a farlo con Neil.

Credi che la libertà sia qualcosa che i disegnatori debbano in qualche modo chiedere, pretendere?

Bane: Conquest #1, variant cover di Kelley Jones

Non so di preciso cosa desiderino molti dei miei colleghi. Penso che molti vogliano soprattutto tempo per lavorare. Non so quanta libertà vogliano… certamente vogliono conoscere le regole del gioco. Non so se quel che voglio io possa essere chiamato libertà, ma certamente voglio poter cambiare idea su certe cose e non pianificare troppo.

Ecco un esempio di come funzionò con Neil Gaiman. Lui aveva descritto, per “La stagione delle nebbie”, i portali dell’Inferno come una sorta di cancellata piena di fiori e di viticci, rami intrecciati. Per me, avremmo invece dovuto essere meno inaspettati, incontrare di più le aspettative del pubblico, lo stereotipo sul paesaggio infernale. Perché quando Morfeo incontra Lucifero, quest’ultimo non è affatto come ce lo aspettiamo. E quindi, delle mura imponenti, minacciose, avrebbero sottolineato il contrasto tra l’aspettativa e la realtà. Lui voleva invece una coerenza tra i cancelli e l’umore del loro padrone. Ma gli dissi di no.

Perché bisognava creare una sorpresa.

Esatto. Perché Lucifero stava cambiando e doveva essere una sorpresa. Inoltre, Sogno arriva ai cancelli preparato per la guerra e sono le mura di una fortezza che doveva trovarsi davanti. Solo una volta entrato avrebbe dovuto trovarsi spiazzato, con un Inferno vuoto, ad aspettare che succedesse qualcosa. Il gioco stava lì. Se avessimo fatto come diceva lui, credo che non sarebbe funzionato altrettanto bene. E lui si fidò, mi diede il permesso di portare avanti l’idea. Questa è la forma di collaborazione di cui vado in cerca.

Pensi che Gaiman sia lo sceneggiatore più talentuoso con cui hai lavorato?

No, perché non penso sia quello il punto, e non mi interessa misurare il talento. Quel che mi interessa di uno sceneggiatore è se parli o meno con la propria voce. E Neil era certamente molto personale nel suo lavoro.

Lo stesso vale per Doug Moench, quando ho lavorato con lui su “Batman”. Era suo, e si sentiva la sua filosofia dentro il personaggio. Questo è il genere di sceneggiatori di cui vado alla cerca: che abbiano qualcosa da dire e vogliano fortemente dirla.

Il che è interessante, perché ho sempre pensato che più la voce dello sceneggiatore è forte, più forte sarà quella del disegnatore nel risultato finale.

Se riesci a non farti intimidire, sì. Se sei un novellino a confronto con Alan Moore, ti blocchi. Quel che è successo nella mia testa è che non avevo voglia di sentirmi bloccato. Piuttosto, avrei rischiato di essere licenziato. Ed è una cosa che ho rischiato parecchie volte, per essere quel genere di artista. Quando disegnavo “Deadman”, ad esempio, era un periodo frustrante. La storia era okay, la serie aveva successo, ma non ero certo che quella fosse la carriera che volevo per me, perché non avevo la libertà di dire quel che volevo. E allora decisi che non avrei chiesto il permesso a nessuno, che non mi sarei adattato alle aspettative. Avrei disegnato il personaggio come lo vedevo io. Che mi licenziassero pure, se volevano. Ma almeno avrei fatto quello che volevo. Non mi sarei arrabbiato se non avessero apprezzato. Ma lo fecero e fui in grado di consegnare loro qualcosa di nuovo e inaspettato.

Oggi sono convinto che ogni lavoro vada affrontato in questo modo: senza compromessi con quello che si desidera e si considera migliore per un personaggio. Attenzione, se uno sceneggiatore vuole che un personaggio sia divertente e buffo, io lo faccio divertente e buffo. Ma dev’essere la mia forma di comicità quella che metterò sulla pagina, informata dalla sceneggiatura.

Quando penso a te, però, penso a Deadman, Batman, Sandman, Swamp Thing… sempre a personaggi abbastanza oscuri. Questa è davvero la tua dimensione, anche a contatto con l’umorismo?

Be’, iniziamo con il dire che non ci sono moltissimi artisti che hanno voglia di spingersi in questi territori oscuri, meno ancora lo fanno inserendo il black humour all’interno del loro stile di disegno. Cosa che invece per me è molto più interessante rispetto al realizzare un personaggio in posa plastica minacciosa. Sono cresciuto leggendo fumetti che invece contenevano una certa quantità di umorismo sinistro: Barry Windsor-Smith lo inseriva spesso nei suoi lavori. E ho sempre apprezzato la cosa.

Interessante che lo citi, perché ho sempre pensato che il tuo stile avesse dei forti punti di contatto con il suo.

Pensa che ho avuto sempre presente Barry e le sue tavole, quando lavoravo a “Sandman”. Barry aveva un modo particolare per dare ai suoi personaggi un tono anarchico in qualche modo. Fuori controllo. E i sogni sono una cosa che non controlliamo, no? Non hanno coerenza. Quindi sapevo di voler inserire all’interno dei disegni un elemento sconosciuto, inconoscibile, qualcosa di distante. Cosa che Barry faceva molto spesso. E come lui anche Bernie Wrightson. Passavano sempre tanto tempo su ogni singola immagine per inserire un particolare di mistero.

E cosa pensi della scena americana di oggi? Spesso si dice che viviamo in un’epoca di grande sperimentazione, non dissimile da quella che ti vide emergere. Sei d’accordo?

Io sono cresciuto leggendo fumetti negli anni Settanta, un’epoca in cui il Fumetto mainstream era fortemente codificato, ma c’era una quantità di prodotti sotto la superficie che coltivavano stili diversissimi fra di loro e che nutrivano la sperimentazione. Ed era perfettamente accettabile vedere quegli stili su personaggi non sotto i riflettori.

E poi sono arrivati gli anni Ottanta e quegli stili sono venuti a galla.

Esatto. Quando io arrivai su “Batman”, Danny O’Neill era la definizione di quel che volevi vedere sul personaggio. Direi che non è più così, oggi. Certamente, oggi ci sono un sacco di voci diverse che collaborano a decidere cosa fare o non fare su una serie, tanti approcci diversi, che sono figli del cambiamento che portammo all’epoca nel Fumetto mainstream. Però penso anche che non ci sia paragone con quell’era.

Come dicevi, all’epoca la scena underground era davvero molto forte, dal punto di vista dell’immaginario. Mentre oggi c’è una scena indipendente che, per quanto sia ricchissima, molto libera e di grande qualità, non è controcultura come l’underground degli anni Settanta e Ottanta.

La mia percezione è che manchi il senso di ribellione in cui sono cresciuto e mi sono formato. Noi volevamo ribaltare le regole del gioco e quell’atteggiamento rendeva molto interessante il Fumetto degli anni Settanta. Quel che è successo è che molto artisti ribelli vennero riconosciuti dalle major e accettati, fatti partecipare al gioco. Portarono la loro rabbia e il loro stile con sé e influenzarono un sacco di gente negli anni Ottanta, e tra questi ci sono io. Conservavamo un certo senso di rabbia, di voglia di bizzarria.

Io pensavo che Batman dovesse per forza essere in un certo modo che non c’entrava con il passato. Attorno a me c’erano artisti con lo stesso atteggiamento, come Tim Sale o Matt Wagner. Tutti eravamo d’accordo sulla ribellione, non verso le case editrici, ma verso i lettori. Volevamo sfidare i lettori, il pubblico. Eravamo arrivati in alto, avevamo l’occasione di esprimerci e volevamo farlo in maniera significativa. E il pubblico venne a cercare quel senso di ribellione, lo voleva ritrovare nelle pagine.

Oggi non credo ci sia più qualcuno che legga fumetti e va in cerca di quella sensazione. Quando Frank Miller rivisitò “Daredevil” come fece, fu un momento rivoluzionario, perché portò il cinema thriller dentro alle storie di super eroi. Fu tanto scioccante quanto naturale, come processo. Ed è quel che noi volevamo: dare vita a qualcosa di nuovo in maniera organica, che cambiasse tutto senza sembrare forzato. E ancora oggi è in qualche modo quel che cerco di fare.

Hai avuto un rapporto speciale con Len Wein, recentemente scomparso. Un suo ricordo?

75 anni di Flash, di Kelley Jones

Len era totalmente dedito al divertimento e convinto che questo lavoro dovesse divertire noi e i lettori allo stesso modo. Non importa quale sia il soggetto della storia, raccontarla ci deve divertire, e questo si trasmetterà al fumetto, che a sua volta farà divertire chi lo legge. Non contano il genere o l’atmosfera. Se c’è gioia nel processo creativo, ci sarà nel risultato.

Len era una delle persone con cui ho preferito lavorare in assoluto, perché scriveva in maniera molto consapevole e aveva una splendida filosofia, di cui parlavamo molto. Una delle cose più carine che mi abbia mai detto, circa sei mesi prima di morire, è che lavorare con me era stata per lui una delle cose più divertenti degli ultimi vent’anni. Proprio perché ci siamo sempre divertiti assieme, a prescindere dalla storia che raccontavamo. Gli facevo decine e decine di domande su come aveva capito che Wolverine avrebbe funzionato come personaggio, o scoperto che Alan Moore sarebbe stata la persona giusta per prendere in mano Swamp Thing. E lui era sempre contento di rispondermi.

Ad esempio, lui era felicissimo del successo di Moore, apprezzava tantissimo le sue storie, ma era anche estremamente sincero nel confessare che la sua visione del personaggio non era quella. Era capace di amare moltissimo storie che non avrebbe mai raccontato e di gioire nel vedere qualcuno di molto diverso da lui manipolare la sua creatura. Non negava il potere di una visione distante dalla propria. Era molto legato all’amicizia e non accettava che il lavoro la rovinasse. Trovava sempre il tempo di coltivare i rapporti. Io e lui andavamo d’accordo proprio perché capivamo in fretta di avere passione per quel che facevamo. A volte lui si trovava a sfidare i suoi colleghi apposta, per vedere se avrebbero difeso le proprie convinzioni. Ma con me non aveva bisogno di farlo.

Sono davvero fortunato ad aver potuto lavorare con lui ed essergli stato vicino fino alla fine. Mi sono sempre visto come un fan molto fortunato che ha potuto assistere da vicino al lavoro di grandi fumettisti come lui.

 

Kelley Jones Claudio