Continua l’ascesa degli autori italiani che, partiti dalla scena underground, si stanno imponendo al grande pubblico con l’originalità e la ricercatezza della loro proposta. In occasione di Napoli Comicon 2018, abbiamo avuto il piacere di fare quattro chiacchiere con Tommaso “Spugna” Di Spigna, giovane fumettista con all’attivo due pubblicazioni, Una brutta storia e The Rust Kingdom, e insignito del Premio Nuove Strade nella serata di assegnazione dei Micheluzzi.

Ringraziamo lo staff di Hollow Press per la disponibilità.

 

Ciao, Tommaso! Benvenuto su BadComics.it!
Complimenti per questo premio, che giunge a suggellare la bontà della fase iniziale della tua carriera. A poche ore dalla consegna, come stai vivendo questo riconoscimento?

È un grande onore per me ricevere questo premio, che arriva dopo il mio unico riconoscimento, dedicato agli artisti esordienti, a Treviso Comic Book Festival 2015. Vista la natura e il nome del premio, Nuove Strade, è stata sicuramente una sorpresa per me, in quanto non credevo che mi riconoscessero già questo status di “giovane promessa” in grado di tracciare nuove strade, appunto. Non me l’aspettavo e sono davvero felice, visto che mi trovo in quella fase in cui ricevere entusiasmo da parte della critica e dagli addetti ai lavori è molto importante.

In quest’ultima fase si sta imponendo una nuova leva di artisti dallo stile molto originale. Penso a te, a Martoz o a Pablo Cammello, per citarne alcuni, la cui proposta personale e ricercata raggiunge un’ampia fetta di pubblico. E negli ultimi due anni, il Premio Nuove Strade è andato proprio a te e a Martoz…

Il discorso della ricercatezza del segno assume una dimensione più rilevante se consideri che tutti questi artisti vengono dall’underground, per poi raggiungere una dimensione super pop.

Nel catalogo della mia casa editrice [Hollow Press – NdR] sono l’artista più mainstream, tra una moltitudine di autori che portano avanti la propria idea di Fumetto. Il credere tanto in quello che facciamo emerge agli occhi di chi legge fumetti, e credo piaccia. Non parlo di numeri folli, però è bello che la nostra specificità riesca a creare un seguito.

Il viaggio è un tema che ricorre all’interno delle tue opere. È questo l’unico elemento che lega “Una brutta storia” e “The Rust Kingdom” o c’è dell’altro?

In realtà, sono entrambi lo stesso libro! [ride] Affrontano due aspetti dello stesso tema, sebbene me ne sia accorto solo dopo l’ultimazione delle opere stesse. “Una brutta storia” è un libro sull’ambizione e sul voler diventare grandi, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo da pagare per diventarlo.

“The Rust Kingdom” ha lo stesso identico tema, ovvero l’ambizione, però affronta il momento dopo il conseguimento di quello che desideravi. Volevo creare un mondo post-tutto, fantasy ma post-apocalittico. L’immaginario richiama infatti scenari come quello di “Mad Max”, di “Ken il guerriero”, di Buronson e Tetsuo Hara. Un commento che mi è piaciuto tanto definiva la mia opera come la duecento milionesima stagione di “Adventure Time”, a indicare un mondo di cui conosciamo l’adesso ma non come fosse un tempo.

In entrambi i casi, inoltre, ho scelto il tema del viaggio perché mi piace raccontare storie ricche d’azione. I protagonisti sono mossi da quest’impulso misterioso che li spinge a ri-scoprire qualcosa.

Nei tuoi lavori ricorre la violenza, mostrata in tutta la sua crudezza. Da dove nasce la scelta di non edulcorare certi passaggi?

Sono sempre stato affascinato dall’estetica della violenza; penso al cinema di Quentin Tarantino o a quello di David Cronenberg – in particolare per quanto riguarda la mutazione dei corpi – senza tralasciare le pellicole action. Tutti questi elementi vanno ovviamente a fondersi con la lettura di fumetti splatter o violenti, molti dei quali vengono dall’underground statunitense. La rappresentazione della violenza nasce quindi dal piacere che mi dà disegnarla.

In seguito, ho trovato una necessità comunicativa nata da un mio bisogno fisiologico di divertirmi mentre disegno o racconto storie. Solo alla fine si è trasformata nella mia cifra stilistica: ora posso sfruttare l’utilizzo di questa estetica della violenza come paravento dietro al quale inserire contenuti più profondi.

Nel mio caso, inoltre, si tratta del modo più onesto che ho per raccontare argomenti complessi. Voglio divertirmi facendo questo lavoro e in questo modo riesco a farlo di più, oltre a essere la maniera più naturale con la quale trattare diversi temi. È un bisogno estetico, un bisogno grafico: le linee che uso mi appagano. Trattandosi di un mondo talmente stilizzato e lontano dal nostro, non c’è bisogno di cercare una legittimazione. La violenza deve essere intesa solo come una semplice rappresentazione divertita.

Come nasce una tua opera? Hai un processo creativo ben codificato o ti lasci guidare dal tuo istinto?

Il primo libro parla del debito che abbiamo verso i nostri maestri, della paura di diventare grandi, di tradire le aspettative facendo il passo più lungo della gamba. La seconda graphic novel, invece, parla della paura di far male alle persone che ci sono vicine, della responsabilità e dell’ambizione che ti acceca.

Sembrano tutti paroloni, grandi concetti ma mi rendo conto di trattare questi argomenti solo quando mi ritrovo a lavorare sulla sceneggiatura. Certo, ho degli spunti iniziali che mi guidano, ma poi lo sviluppo procede quasi in automatico.

Qual è il percorso artistico che ti ha portato ad adottare queste soluzioni? Dove nasce lo stile di Spugna?

Ogni volta ripeto sempre i soliti cinque nomi, ma questa volta non lo farò e ne troverò altri! [ride] Il primo grande amore della mia vita è stato Jacovitti, per farti capire quanto sia lontano dalle cose che faccio adesso. Purtroppo, uno nome dei soliti lo devo spendere, ed è quello di E.C. Segar, il creatore di Braccio di Ferro. Cito anche Massimo Bonfatti, che ho apprezzato da bambino sulle pagine di “Cattivik”.

Crescendo mi sono appassionato ai manga, e non posso non citare – visto anche quanto mi hanno influenzato nella lavorazione di “The Rust Kingdom” – l’opera di Go Nagai, “Berserk” di Kentaro Miura e – altro nome tra quelli che cito sempre – Eiichiro Oida e il suo “One Piece”, in particolare per la gestione dinamica delle scene di combattimento.

Il tutto, ovviamente, frullato attraverso la mia conoscenza e ammirazione per autori dell’underground italiano. Alla fine sono giunto a uno stile che mi soddisfa e mi diverte, lo stile che vorrei utilizzasse il mio autore preferito.

Quella che hai raggiunto è la tua ideale dimensione artistica o punti a qualcos’altro?

Il percorso non termina mai. Sono felice perché tra il primo e il secondo libro ho fatto un passo avanti interessante che mi ha permesso di ovviare ad alcuni limiti emersi dal mio lavoro. In particolare, mi riferisco all’utilizzo degli sfondi: “Una brutta storia” può essere quasi considerata una raccolta di mezzi busti, mentre in “The Rust Kingdom” ho cercato di gestire meglio gli spazi, le atmosfere, di dargli un respiro più ampio al tutto.

Cerco di raccontare sempre meglio le mie storie, e questo mi spinge a migliorare anche il mio stile artistico. Quindi non mi sento per nulla arrivato.

A cosa stai lavorando attualmente e, soprattutto, in che modo svilupperai la componente narrativa delle tue opere?

Come autore completo sto realizzando un ulteriore tassello per il mondo di “The Rust Kingdom”, al fine di realizzare una sorta di spin-off. Si tratta di un mediometraggio, in quanto la foliazione è a metà strada tra un corto e una graphic novel. Sarà un’altra storia ambientata in questo mondo che si ricollegherà a quella precedente in un modo che non posso ancora svelare. Non è ancora definita, ma posso dirti che sarà un’opera sperimentale più sotto il profilo del meccanismo fumettistico che non dei contenuti, più grezza ma al contempo più cervellotica e autoriale. Spero che possa essere disponibile già per il festival di Treviso, fiera alla quale mi sento particolarmente legato.

 

Pasquale Gennarelli e Tommaso "Spugna" Di Spigna