Ta-Nehisi Coates è il prossimo scrittore della serie di Capitan America. L’uomo a cui la Marvel ha consegnato le chiavi della vita di Pantera Nera e le cui storie sono state fondamentale retroterra per la scrittura del film Black Panther, successo planetario, diventa anche il responsabile delle gesta di Steve Rogers.

Il giornalista e saggista pluripremiato, appassionato di fumetti e divenuto entusiasta sceneggiatore, confessa tutti i suoi timori in un pezzo scritto per The Atlantic, intitolato Perché scriverò Captain America – E perché la cosa mi spaventa a morte. Il suo debutto avverrà a luglio, in un nuovo Captain America #1, disegnato da Leinil Francis Yu.

 

Due anni fa ho preso in carico il mio sogno di bambino di scrivere fumetti. A dirla tutta, è più difficile di quanto sembri, per dirla in maniera decisamente eufemistica. Gli scrittori non scrivono i fumetti, semmai li disegnano a parole, perché tutto deve essere mostrato. Cosa che sapevo già, al debutto, ma che non ho veramente compreso finché non ho provato. Per due anni ho vissuto in Wakanda, scrivendo Black Panther, cosa che continuerò a fare. Ma quest’estate entrerò anche nel mondo di Capitan America.

Chi di voi non ha mai letto un suo fumetto o non lo ha mai visto in un film Marvel è perdonato, se crede che Cap sia una specie di mascotte per i nazionalisti americani. In effetti, una delle cose migliori della storia del personaggio è la sua implicita ironia. Cap nasce come Steve Rogers, un uomo con il cuore di un dio e il corpo di uno scricciolo. Cuore e corpo sono portati allo stesso livello dal siero del super soldato, che lo trasforma nel miglior esempio di essere umano esistente, dal punto di vista fisico. Chiamato Capitan America, Rogers diventa la personificazione degli ideali egualitari del Paese.

La trasformazione è taciuta dall’esercito, ma, forse proprio per le sue radici lontane dal concetto di potere, Cap è un dissidente, tanto pronto a litigare con i suoi superiori quanto a opporsi ai piani del nazista Teschio Rosso. Chi cospira contro di lui giunge fino alla Casa Bianca e, a un certo punto, lo costringe a rigettare il nome stesso di Capitan America. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, resta congelato nel ghiaccio e si sveglia all’epoca nostra. Anche questo lo pone distante dal nostro Paese e dai suoi ideali. Diviene un “uomo fuori dal tempo”, l’emblema vivente della più grande delle generazioni e della sua propaganda, gettato a capofitto nel postmodernismo. Pertanto, Capitan America non è così legato all’America come potreste pensare, se non a quella di un passato immaginario. In una famosa scena, lodato da un generale corrotto per la sua lealtà, Rogers risponde, con la bandiera in mano: “Non sono leale a nulla, generale… se non al sogno”.

Confesso di avere sempre avuto un rapporto complicato con questo genere di proclami. E questo è proprio uno dei motivi per cui sono entusiasta di scrivere Captain America. Ho la mia buona quantità di idee molto decise sul mondo, ma una delle ragioni per cui ho deciso di essere un giornalista d’opinione è capire come queste idee possano trovare posto nella prospettiva di altre persone, che per me è sempre stato più interessante che riposarmi sugli allori delle mie convinzioni. Scrivere è per me un lavoro di domande, non di risposte. Cap, l’incarnazione di una sorta di ottimismo lincolniano, mi pone una domanda molto diretta: perché mai qualcuno dovrebbe credere al Sogno Americano? La cosa entusiasmante non è qualcosa di didattico, come l’operazione di mettere le mie parole in bocca a Cap, ma la possibilità di esplorare il diverso, di evitare la ripetitività di una voce di cui sono stanco.

E poi c’è la gioiosa sfida di disegnare con le parole le paure che accompagnano ogni mio sforzo. La paura è parte dell’attrattiva, perché, se devo essere onesto, il lavoro di opinione che c’è nel giornalismo non è più così spaventoso come lo era un tempo. Riportare notizie, che significa scoprire, sarà sempre fonte di timore. Dire le mie opinioni, sempre meno. E nulla dovrebbe mai spaventare uno scrittore come il momento in cui non ha più paura. Credo sia in quell’attimo che si diventa caricature di se stessi, condannati a ripetersi all’infinito, sempre con le stesse idee e opinioni. Non sono sicuro di essere in grado di raccontare una grande storia di Capitan America e, proprio per questo, non vedo l’ora di tentare.

 

Coates ringrazia Leinil Francis Yu, che disegnerà le sue storie, e Alex Ross, copertinista, così come la comunità di professionisti dei comics che lo ha accolto e gli ha insegnato molto di questo mestiere.

 

Soprattutto, grazie a Christopher Priest, Denys Cowan e Dwayne McDuffie, senza cui nulla di tutto questo sarebbe possibile. Ci si è lamentati a lungo del fatto che i fumettisti di colore fossero quasi costretti a lavorare su personaggi di colore. Non so cosa significhi vivere in un mondo in cui ti vengono posti dei limiti a quel che puoi scrivere e la ragione per cui non lo so è soprattutto negli sforzi di coloro che hanno dovuto sopportarlo prima di me. Qualcosa che non ho intenzione di scordare.

 

Captain Ameirca, copertina di Alex Ross

 

 

Fonte: The Atlantic