Una lunga chiacchierata su Newsarama con Christopher Priest fa bella mostra di sé, all’indomani dell’uscita di Black Panther nelle sale cinematografiche di tutto il mondo e del suo storico successo al botteghino dopo il primo week-end negli Stati Uniti.

Le dichiarazioni di uno dei responsabili fondamentali della fisionomia del personaggio a fumetti, per com’è oggi e com’è diventato negli anni, sono certamente di grande interesse e noi ve le riportiamo nei loro passaggi più interessanti e significativi; ma non è tanto della pellicola di Ryan Coogler che parla lo sceneggiatore, bensì del personaggio a tutto tondo e della sua esperienza come autore fondamentale per la sua mitologia.

Si inizia con una cronistoria della nascita della serie targata Marvel Knights e delle sue difficoltà, in un’epoca in cui la Casa delle Idee era intrappolata tra necessità di rinnovamento e attaccamento a regole ormai vecchie. Eccovi la prima parte dell’intervista:

 

Non so come mi sento nel vedere le mie storie raccolte e ristampate oggi, anche perché non ho ancora avuto il volume per le mani. Sono felice che la Marvel abbia deciso di farlo. In passato mi hanno detto che non sarebbe accaduto perché il personaggio è stato oggetto di rettifica da parte di Reginald Hudlin e che la casa editrice non voleva promuoverne una versione non ufficiale.

Una delle cose che ricordo più nitidamente dell’epoca in cui scrivevo Black Panther era lo sforzo costante e faticoso di attrarre i fan più mainstream dei fumetti Marvel. All’indomani del lancio di Marvel Knights venivamo costantemente stimolati a far crescere i dati di vendita, cosa che non faceva affatto bene al nostro procedimento creativo. Non ho mai avuto il controllo editoriale e artistico completo della serie: tutti i cambiamenti di approccio narrativo e le variazioni di trama furono suggerite dalla Marvel, così come la decisione di rimpiazzare T’Challa con Vin Diesel verso la fine, in un tentativo disperato di mantenere viva la testata.

Tom Brevoort è, credo, l’unica persona che abbia mai ammesso, almeno a me, che la serie Pantera Nera era quel che era, e che questa sua natura è strettamente legata al suo scrittore. Ossia me. Ad alcuni piacerà, ad altri no, ma fare i salti mortali per cercare di accontentare il pubblico non fu una grande idea. Lo sceneggiatore che prese il mio posto, Hudlin, se ne rese conto all’istante e, come mi ha raccontato, non si è mai dato pena di corteggiare lettori e guardare i dati di vendita.

 

Priest ha quindi parlato della nascita del suo Pantera Nera, che vide la luce quando Joe Quesada e Jimmy Palmiotti firmarono l’accordo con la Casa delle Idee per dare vita all’etichetta Marvel Knights, che proponeva storie adulte con personaggi di “secondo piano” senza troppi vincoli con la continuity.

 

Black Panther #1, copertina di Mark Texeira

Non ho mai voluto scrivere un fumetto black, perché i personaggi di colore sono complicati da vendere. Avevo sentito che si sarebbero occupati di Daredevil e la notizia mi entusiasmò, soprattutto quando suono il mio telefono. Adoro il personaggio e ho sempre voluto avere l’occasione di scriverlo. Quando mi dissero che mi offrivano Pantera Nera, il mio cuore sprofondò un pochino. A quei tempi, si dava per scontato che uno sceneggiatore dovesse sostanzialmente mantenere lo status quo dei personaggi, e Pantera, all’epoca, era un tipo con poca personalità che faceva il Vendicatore di riserva.

Joe e Jimmy, assieme a Mark Waid e agli editor Nanci Dakesian e Brian Augustyn, avevano parlato del progetto, ma io ero preoccupato del fatto di essere stato scelto appositamente per realizzare una storia da afroamericano, da nero. Inoltre, il personaggio non mi affascinava granché, nemmeno con l’idea di trascinarlo negli Stati Uniti che avevano partorito. Quindi, ho fatto a Joe il discorso di Robert De Niro in Casinò: se avessi accettato, avrei lavorato a modo mio, senza interferenze. Non avrei mai scritto le storie di questo tizio, che all’epoca veniva costantemente messo in imbarazzo e sconfitto a destra e a manca. Io avrei scritto il personaggio che Stan Lee aveva creato tanto, tanto tempo prima su Fantastic Four #52: uno che aveva battuto in furbizia e sconfitto quattro dei più potenti eroi Marvel.

Se potevo rendere Pantera Nera tosto, misterioso, scaltro e spesso in disaccordo con i suoi colleghi Avengers, allora ecco un personaggio che avrei trovato interessante. Se avessi potuto abbracciare la sua natura di monarca come era stato fatto con Namor, forse non altrettanto arrogante ma certamente fiducioso, tratteggiandolo come un uomo dal potere assoluto, anche questo l’avrebbe reso significativo. Infine, chiarii che avevo bisogno di un personaggio che introducesse un punto di vista, qualcuno che rendesse percepibili le paure e i pregiudizi che i fan dei supereroi bianchi avrebbero certamente avuto, riluttanti ad acquistare un fumetto black. Avevo già creato un personaggio del genere su Ka-Zar, modellandolo su Michael J. Fox e Matthew Perry. Sarebbe stato perfetto per Pantera.

Marvel Knights accettò e io firmai per prendere in carico la serie. Ho consegnato la prima sceneggiatura e Joe e Jimmy la respinsero. Un grande inizio, insomma. Mi spiegarono di aver adorato l’approccio narrativo da “Pulp Fiction al contrario” che avevo usato su Quantum & Woody e che pensavano che avrebbe funzionato molto bene su Pantera Nera. Quindi hanno cassato la prima stesura, scritta in maniera molto più tradizionale e ci siamo spostati su quello stile di racconto che era stato sia molto amato che detestato da parecchi. Ironicamente, vent’anni dopo, la Valiant avrebbe rigettato la mia prima stesura di Q2: The Return of Quantum & Woody per lo stesso motivo.

 

 

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