Simona Binni, autrice romana classe ‘75, è tornata con un nuovo lavoro, La memoria delle tartarughe marine, pubblicato da Tunué. Dopo aver conosciuto la comunità di senzatetto di Silverwood Lake, ci spostiamo a Lampedusa per seguire la vicenda di Davide e Giacomo, due fratelli il cui destino sembra legato a doppio filo con quello delle tartarughe marine.

Abbiamo avuto il piacere di parlarne con Simona a Lucca Comics & Games 2017.

 

Ciao, Simona e benvenuta su BadComics.it.
Abbandoniamo le ambientazioni americane di “Silverwood Lake” per trasferirci in Italia – a Lampedusa, per la precisione – con “La memoria delle tartarughe marine”. Cosa ti ha spinto a compiere questo viaggio e tornare nel nostro Paese?

L’esigenza di ricordarmi e ricordare il fatto che gli autori di fumetti non vivono chiusi nei loro studi ma percepiscono il contesto sociale che li circonda. Il nostro lavoro è sicuramente bello, ma ci spinge a isolarci, quindi ho deciso di utilizzare Lampedusa come cornice a questa storia incentrata su due fratelli. Viviamo un momento importante e ho avvertito la necessità di parlare di temi di rilievo. Ignorarli non è possibile. Il medium Fumetto offre sicuramente evasione, ma è giusto dare importanza al momento storico che stiamo vivendo.

Ci tengo a precisare che non è un libro sull’immigrazione, ma utilizza questo contesto per raccontare una storia più intima.

Se in “Silverwood Lake” analizzavi le dinamiche tra un padre fuggitivo e il proprio figlio, questa volta concentri la tua attenzione sulle dinamiche tra fratelli. La famiglia è ancora al centro della tua opera.

Sì, la famiglia è un tema a me caro. L’ho sempre vissuta e vista come la palestra della vita. I rapporti primari che ci offrono le basi per affrontare tutto ciò ci aspetta nascono proprio così, relazionandosi con papà, mamma, fratelli e sorelle.

“Per restare ci vuole coraggio”, cantano Le Strisce nel loro brano “Vieni a vivere a Napoli”. Le posizioni di Davide e Giacomo – i protagonisti della tua graphic novel – sono esemplificative di due tendenze: partire o restare. Qual è la tua idea in merito?

Io credo che sia importante partire per poi ritornare. Si ritorna sempre, nella vita, è il suo ciclo che ci fa tornare alle cose. Ti faccio un esempio: pensa a ciò che ti hanno insegnato i genitori da piccolo. Arriva un momento – generalmente coincide con l’adolescenza – in cui senti l’esigenza di camminare da solo, con le tue gambe, allontanandoti da quella situazione. Poi, arriva un altro frangente – nel quale magari sei tu ad aver messo su famiglia – nel quale torni al punto di partenza, al luogo in cui sei stato messo al mondo. La terra in cui nasciamo è qualcosa che ci portiamo sempre dentro, e non è detto che il ritorno sia per forza da intendere come un ritorno fisico. Spesso può essere simbolico.

La memoria delle tartarughe marine, copertina di Simona Binni

Mentre avanza la storia dei protagonisti, in parallelo parli delle tartarughe marine, della loro storia e dell’atavico istinto che le spinge a correre verso il mare, una volta uscite dall’uovo. Come nasce questa scelta così particolare?

L’elemento marino è per me fondamentale, mi affascina come il concetto di acqua, di isola, di mare. Ho voluto condensare tutte queste emozioni nel mio lavoro. Inoltre, ho avuto la fortuna di assistere a quella scena delle tartarughe marine e ne sono rimasta profondamente colpita.

Già in “Amina e il vulcano” avevo iniziato a parlare di Stromboli. Come in quel caso, volevo rimarcare con elementi naturali il concetto di appartenenza, e mi è sembrato che l’esempio delle tartarughe fosse magnifico. È partito tutto come un’idea che inizialmente non era portante; poi, approfondendo il concetto di natal homing, sono rimasta colpita e mi è piaciuta l’idea di creare un parallelo tra Giacomo, il suo ritorno a casa e il ritorno nella “loro casa” delle tartarughe.

“Silverwood Lake” affrontava il tema dei senzatetto. In “La memoria delle tartarughe marine”, invece, si parla di radici e di ritorni alle stesse. Che tipo di processo personale e artistico hai vissuto tanto da cambiare completamente prospettiva su temi così profondi?

Come scrittrice lascio che i temi dei miei libri maturino con il tempo e insieme a me. Arriva il momento in cui sento il desiderio e la voglia di parlare di quel qualcosa che ho lasciato maturare e crescermi dentro.

Abito a Roma, e a Ostia c’è una pineta in cui vive una comunità di senzatetto. Sono sempre stata colpita e incuriosita da queste persone, il loro modo di vivere e tutto quello che c’è intorno. Trattandosi di situazioni pericolose, non sono mai potuta entrare e approfondire direttamente quanto succede all’interno della comunità; cosa fanno e come vivono sono domande che mi sono sempre posta. Sono situazioni che non mi lasciano indifferente, ogni volta che ci passo vicino mi pongo tanti interrogativi, anche sul perché di certe scelte; come fa il protagonista del precedente romanzo grafico – Diego Lane – che scava a fondo nelle motivazioni che hanno spinto il genitore a lasciare la sua famiglia per abbracciare una vita da senzatetto.

Perché hai scelto di ambientare la storia negli Stati Uniti e non a Ostia?

Perché le ricerche che ho condotto mi hanno spinto ad approfondire più dettagliatamente questa comunità americana. Mi affascina l’idea che esista una località in California in cui non è richiesto un documento, un luogo in cui nessuno vuole sapere chi sei. Ho deciso di raccontare di questo luogo in cui vieni accolto senza che qualcuno chieda cosa hai fatto in precedenza o cosa ti abbia portato lì.

Come scrittrice, dove ti sta conducendo la tua ricerca? Hai già qualche idea da sviluppare o sei ancora alla ricerca dello spunto decisivo?

Non riesco a stare ferma. Ho sempre tante idee che desidero poi portare avanti. Avevo iniziato a lavorare a un progetto molto complesso, su cui ho fatto molte ricerche e letture. Poi, in questi giorni, mi è arrivata un’idea completamente diversa. È ancora troppo presto per parlarne, ma credo che sia quest’ultima che porterò avanti.

La Simona disegnatrice, invece, è riuscita a superare quel limite emerso nel precedente lavoro, in cui si evidenzia una certa fissità nell’espressione. Quanto hai lavorato per raggiungere un risultato migliore, che riesce finalmente a rendere giustizia alla sceneggiatura?

Davvero tanto. Ho lavorato cercando di migliorare me stessa e il mio stile. Per opere come le mie, l‘espressività è un elemento fondamentale. Quindi cerco sempre di migliorare studiando costantemente, e per riuscirci mantengo invariato il mio metodo di disegno. Può sembrare un limite, ma mi permette di evolvere e avere la possibilità di cambiare stile già dal prossimo lavoro.

 

Simona Binni e Pasquale Gennarelli