Nel panorama del fumetto italiano, Paolo Bacilieri è una delle figure più amate dai lettori. La sua carriera è partita all’inizio degli anni 80 e ha attraversato indenne oltre tre decenni che hanno visto la Nona Arte cambiare interpreti, modificare il suo approccio nei confronti del pubblico, introdurre nuovi strumenti di diffusione (leggi internet). Nello splendido contesto della città di Bari, durante l’ultima edizione di BGeek, abbiamo avuto il piacere di scambiare qualche battuta con un loquace Paolo, pronto a condurci per mano attraverso i tanti incroci della storia del cruciverba, epopea raccontata nei suoi due ultimi romanzi grafici: Fun e More Fun, entrambi editi da Coconino Press-Fandango.

 

 

Ciao, Paolo, e benvenuto su BadComics.it. È da poco uscito il secondo capitolo di Fun, intitolato More Fun, edito da Coconino Press-Fandango. Cosa devono aspettarsi i tuoi lettori da questo nuovo volume dedicato alla nascita del cruciverba?

Chi ha letto la prima parte di Fun ha visto che questo libro tratta la storia del cruciverba e lo fa in modo molto personale. La parte principale, però, resta proprio la storia del cruciverba. Mentre il primo capitolo trattava la nascita vera e propria del cruciverba negli Stati Uniti, avvenuta un secolo fa circa, del suo sviluppo, della sua esplosione e della sua diffusione nel resto del mondo, nella seconda parte mi occupo nello specifico della diffusione in Francia e soprattutto in Italia. Ovviamente ci sarà un’attenzione particolare per quella rivista impossibile da ignorare per uno che si occupa di queste cose, La Settimana Enigmistica. Per quanto riguarda la parte storica c’è questo passaggio, ma c’è anche la chiusura delle vicende del primo volume che riguardano Pippo Quester, Mafalda, questa misteriosa ragazza, e Zeno Porno, mio solito protagonista. La struttura, quindi, è uguale a quella del primo libro, con una parte storica, una parte di storie brevi caratterizzate dal colore e il collante tra questi due elementi, che sono Pippo e Mafalda.

Restano dunque invariati sia la struttura che l’approccio alla scrittura anche in questo volume.

Sì, mi piace la definizione che hanno dato alcuni che si sono occupati del mio libro parlando di un dittico. Ed è veramente così, un libro diviso in due parti, due parti coerenti che hanno la stessa struttura. Come se ci fosse quasi una simmetria.

Quando è nata l’dea di realizzare un’opera del genere e come è sbocciato il tuo interesse nei confronti del cruciverba?

Fun, copertina di BGeek 2016: Pasquale Gennarelli in compagnia di Paolo BacilieriL’idea è nata intorno alla primavera del 2012, era da poco uscito Sweet Salgari, libro precedente pubblicato con Coconino Press-Fandango, e mi trovavo in un bar con Stefano Batterzaghi, noto esperto di cruciverba nonché scrittore, mio amico e vicino di casa milanese, che aveva da poco scritto un bellissimo articolo uscito su La Repubblica proprio su Sweet Salgari. Chiacchieravamo del più e del meno e quando stavamo per salutarci Stefano ha buttato lì quasi per scherzo l’idea di scrivere un libro sulla storia del cruciverba. Lì per lì non l’ho preso affatto sul serio, e avrò risposto “eh, magari in un’altra vita, Stefano” o “avessi 8 mani lo farei volentieri, Stefano” o una risposta del genere.

Ma dopo aver letto un suo libro, che consiglio a tutti di leggere, si intitola L’orizzonte verticale edito da Einaudi in cui si racconta proprio la nascita del cruciverba, ho trovato tante storie, storielle, personaggi interessanti, magari raccontati in due righe che, però, chiedevano di essere raccontati a fumetti. Sentivo un richiamo fortissimo. E queste storielle avevano tutte le caratteristiche per diventare un fumetto. Storielle amene come piacciono a me, tipo quella di quest’insegnante inglese che realizzava cruciverba durante la Seconda Guerra Mondiale che un giorno viene arrestato dal servizio segreto inglese e tenuto due giorni in gabbia solo perché aveva inserito nei suoi cruciverba parole come Omaha e Overload, tutte parole in codice dell’imminente sbarco in Normandia. E l’ha fatto per pura coincidenza. Questo signore ignaro si è preso due giorni di schiaffoni prima di essere rispedito a casa dopo che avevano capito che si trattava di una coincidenza.

Poi mi sono complicato la vita perché anziché realizzare un semplice documentario a fumetti sulla nascita del cruciverba ho voluto inserire tutta una serie di storie brevi che avevo realizzato negli anni e avevo lanciato in giro su varie riviste, cataloghi, quotidiani. Storie brevi, che si chiudevano in poche pagine. Questa è stata la cosa folle e geniale: si inserivano in orizzontale e in verticale in questa grande griglia come se fossero delle definizioni. Queste due parti, storica e storie brevi, sono tenute insieme proprio dal collante che sono le avventure di Zeno e Pippo.

Quindi l’opera era stata concepita per essere realizzata in un unico volume?

Ero partito con l’idea di realizzare un volume di 200 pagine ma poi la storia mi è praticamente esplosa tra le mani e siamo arrivati a 300 pagine. Quando progetto le storie faccio una specie di timone, che è un foglio con tutte le tavole disegnate piccoline in diversi colori che corrispondono alle varie scene, numerate. Durante la realizzazione del primo volume mi sono reso conto di non farcela a stare nelle 300 pagine e d’accordo con l’editore abbiamo deciso di dividerlo in due volumi.

La tua carriera è iniziata ormai circa trent’anni fa. Com’è cambiata dal tuo punto di vista l’editoria e, più in generale, la scena fumettistica italiana?

Ho iniziato a pubblicare professionalmente verso la metà degli anni ’80 e sono cambiate tante cose da allora, veramente tante cose. All’epoca i fumetti erano pubblicati prevalentemente sulle riviste d’autore, contenitori di storie di autori più o meno famosi, riviste a più o meno larga diffusione. Io ho avuto la fortuna di iniziare in Francia, prima ancora che in Italia, su riviste prestigiose che pubblicavano grandissimi autori. Questo ti dava una certa tranquillità, visto che non faceva pesare su di te la responsabilità delle sorti della riuscita del numero. Nello stesso tempo avevi la possibilità di cominciare ad affrontare un pubblico di vasta portata. Adesso mi pare che un giovane autore debba avere le idee più chiare rispetto ad allora, deve uscire direttamente con un volume a fumetti, deve avere un’idea di storia, di libro, sul tipo di fumetto che vuole fare. Ecco, ho l’impressione che i fumettisti giovani di oggi siano più consapevoli di quanto lo fossimo noi, che eravamo piuttosto scemi, a 20 anni o giù di lì. Almeno nel mio caso. Anche a livello generazionale eravamo piuttosto sconsiderati, sognatori e poco attenti a queste considerazioni.

Non possiamo non parlare della sempre maggiore rilevanza che la rete e i social stanno avendo nella diffusione del media fumetto.

More Fun, copertina di Paolo BacilieriData la mia sconsideratezza giovanile ho cambiato spesso il mio stile ed è una cosa di cui non mi pento. A volte i cambiamenti mi hanno reso irriconoscibile tra un volume e l’altro, passando da un tratto chiaro e pulito alla francese a uno più sporco, come in Barocco. Internet e poi i social, secondo me hanno una doppia valenza. Sono stati una salvezza perché hanno portato molta attenzione critica nei confronti dei fumetti, anche per quei lavori di scarsa diffusione. Questo è un vantaggio che Internet ha dato ai fumetti. Per quanto riguarda invece gli svantaggi, i social creano l’effetto tempesta in un bicchiere che spinge il fumettista, che di sua natura è un animale solitario, a perdere tempo. Anche io lo faccio, sebbene sia la persona meno attiva sui social. Dopo di me c’è solo Altan, che non ha Facebook, forse non ha nemmeno una mail. Gente che potrebbe fare dei capolavori magari perde una mattina intera a cazzeggiare su Facebook o a scrivere stronzate sull’ultimo film degli X-Men. Probabilmente svilupperemo degli anticorpi che ci permetteranno di disegnare con una mano e rispondere alle chat con l’altra.

Visto che hai parlato dei tuoi continui cambiamenti di stile, la tua evoluzione costante, dove è diretta oggi la tua ricerca stilistica?

Un disegnatore non sta mai fermo. Anche lo stesso Schulz, che ha disegnato per tutta la vita gli stessi personaggi, ha evoluto il suo stile, basti vedere le prime e ultime tavole realizzate, per capirlo. Se è cambiato lui, pensa io. Anche se devo dire che nell’ultimo periodo mi sono stabilizzato, ho trovato una mia maniera abbastanza articolata di raccontare una storia a fumetti, sia col disegno che con la scrittura. È una maniera articolata figlia dei miei cambiamenti del passato. Questo lo rivendico come conseguenza delle scelte passate, che mi hanno fatto perdere un po’ in riconoscibilità, però mi hanno permesso di poter raccontare diversi generi di storia. L’anno scorso sono riuscito a disegnare, ad esempio, un western per la Sergio Bonelli Editore, che era una cosa difficile ma che volevo da una vita. Adesso posso dire di avere un segno articolato che mi permette di lavorare su diversi registri.

Nella tua produzione hai realizzato opere sia come autore completo che come disegnatore affiancato ad altri sceneggiatori, in particolare le tue matite per Napoleone, Orfani e Le Storie. Quale ruolo ti piace di più ricoprire e, in generale, com’è il tuo rapporto con gli altri autori durante le fasi di creazione?

Non lo so. È una domanda che spesso mi fanno ma preferisco essere tutte e due le cose. Non rinuncerei a nessuna delle due. Mi piace sia il fatto di lavorare per Bonelli, fare fumetto da edicola alla Bonelli, sia fare le cose mie. Mi piace il fatto che faccio entrambe le cose, devo dire che mi diverte. Ho avuto la fortuna, in Bonelli, di trovare sempre sceneggiatori con cui avevo un rapporto molto forte di amicizia e complicità. Io, anche quando disegno per altri, ho bisogno di riscrivere ciò che andrò a realizzare: mi ritengo sceneggiatore anche quando disegno storie di altri. Può sembrare un po’ presuntuoso, ma ho bisogno di introitarla quella storia, di farla mia, di interpretarla, di renderla proprio una mia storia. Lo sceneggiatore è come un complice in una rapina, una persona nella quale ricerco continuamente un dialogo, talvolta anche duro.

Sulla copertina del tuo ultimo libro hai raffigurato uno dei simboli di Milano, la Torre Velasca. Qual è il tuo rapporto con questa città?

Io adoro Milano, ci vivo da quasi vent’anni e l’amo molto. È un po’ un rapporto come quello di Woody Allen con Manhattan, il mio. Nel senso che non ci sono nato, essendo cresciuto in Veneto, poi mi sono trasferito a Milano e, non subito, dopo un po’, ho capito che era bellissima. E lo penso solo io, visto che la gente la reputa un postaccio in cui vivere. Mi piace tanto disegnarla. Mi piace, nello specifico, l’architettura milanese del secondo dopoguerra, è una mia perversione. Adoro l’opera di Gio Ponti, e i miei amici mi guardano storto. La Torre Velasca, che ormai disegno a occhi chiusi, è un grattacielo, ma metà dei miei concittadini vorrebbe raderla al suolo. Mi illudo che uno possa diventare milanese, a differenza, che ne so, di essere napoletano. In quel caso o sei nato lì o, mi dispiace, non lo diventerai mai. Io mi illudo che milanese si possa diventare. Non è facile, ci vuole tempo, ma si può.

Ricorre in questi giorni il 60° anniversario della nascita di Andrea Pazienza. Spesso lo hai citato durante la conferenza tenuta ieri. In che modo credi che l’opera di Pazienza possa aver influenzato il tuo lavoro?

Non saprei quantificare in termini stilistici quanto ci sia dell’opera di Andrea in quello che faccio io. Posso dire che la mia generazione ha proprio amato lui come persona piuttosto che le sue opere. Noi lo amavamo alla follia. Noi eravamo le vittime perfette per quello faceva lui. Se metti Pazienza in mano a chi non ha mai letto fumetti non coglierà tutti i riferimenti e le citazioni che cogliamo noi che siamo cresciuti a pane e fumetti. Ecco, noi lo capivamo, lo seguivamo, volevamo portarcelo a casa. Se pensi che Penthotal l’ha scritto a 20 anni, è una cosa assurda. Le storie sono ancora fresche, divertenti, funzionano ancora. Ma forse il mio giudizio è troppo di parte, per via di quanto amo la persona. Anzi, sai che ti dico? Io condannerei la gente a leggere Pazienza.

In Italia abbiamo una lunga tradizione di autori che negli anni ha tratteggiato figure femminili belle, sinuose, forti… come la protagonista del tuo romanzo. Qual è il tuo rapporto con le donne, considerando anche l’interessante progetto Edi Tipe, che ti vede coinvolto e la sempre maggiore attenzione che le donne stanno ricoprendo nel mondo del fumetto?

BGeek 2016: Pasquale Gennarelli in compagnia di Paolo BacilieriBeh, è una delle conseguenze di vivere a Milano. Lavoro in uno studio insieme ad altri fumettisti, uno di questi si chiama Vincenzo Filosa, disegnatore eccezionale, un giapponese nato a Crotone. Un giorno Vincenzo mi dice, durante un pranzo, spalleggiato dai fratelli La Forgia, “Abbiamo messo su questa pagina Facebook goliardica.” Io ho un debole per le cose poco serie. Dietro questa mancanza di serietà, però, credo ci sia qualcosa di veramente bello nel disegnare le tipe, vecchie, giovani, brutte, belle. È un modo per raccontare una storia con un disegno solo.

Pazienza in questo era un maestro. Tieni presente che Edi Tipe nasce per volontà di un gruppo di quattro cazzoni perditempo viventi a Milano, che però in passato ha coinvolto anche autrici di fumetto che ci piacciono molto. Noi ospitiamo disegnatori e disegnatrici e li invitiamo a disegnare tipe, anzi se ci sono disegnatori in ascolto che ci vogliono inviare qualche tipa, noi siamo qui. Alcune disegnatrici bravissime ci hanno fatto delle tipe bellissime. Detto questo, io sono nato negli anni ’60 e credo di essere cresciuto in un modo in cui quando leggo una bella storia non mi chiedo chi l’abbia scritta, se uomo o donna. Una delle disegnatrici più brave in Italia, Grazia Nidasio, è una che leggevo da piccolo sul Corriere Dei Piccoli; è una che dà la merda a tanti autori contemporanei. Se poi sei cresciuto con un modello femminile come quello di Pippi Calzelunghe, allora sai che le donne ti daranno del filo da torcere, che è gente pericolosa.